Il senso sociale salverà Israele?

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di Nathan Greppi

 

Quando, il 13 agosto, fu annunciato l’accordo di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, seguiti in breve tempo dal Bahrein, in molti gioirono in quanto si trattava di un grande risultato per la diplomazia israeliana, che nel lungo periodo gli porterà diversi benefici sul piano economico e geopolitico. Tuttavia, 2 giorni prima era uscita una notizia, tutt’altro che confortante, che pur avendo ricevuto una visibilità molto più limitata dovrebbe suscitare non poche preoccupazioni: stando alla Banca Centrale Israeliana, lo Stato Ebraico era l’ultimo paese al mondo per percentuale del PIL investita in aiuti per i cittadini impoveriti dalla quarantena (3,3%, contro il 9,8% degli Stati Uniti).

I due fatti sopra riportati riflettono un fenomeno apparentemente contraddittorio: da un lato Israele è perfettamente in grado di difendersi sul piano militare e della cyber-sicurezza, e sul piano delle relazioni internazionali non ha mai avuto tanti alleati come oggi, dall’altro sta attraversando una delle crisi peggiori della sua storia su un fronte dove fino a poco tempo fa sembrava essere in ottima forma: l’economia.

Questo paradosso viene in parte confermato anche dalle percezioni della popolazione: secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute pubblicato ad agosto, il 54% degli israeliani si riteneva pessimista sulla situazione politica nel paese, contro il 38% che invece era ottimista. La percezione sulla sicurezza, al contrario, vedeva un 59% di ottimisti e un 35% di pessimisti. Il pessimismo riguardo alla situazione interna è in larga parte dovuto a 2 fattori: 1) La gestione negativa della pandemia da parte del governo, aggravata dalla volontà degli ortodossi di non rispettare le norme anti-Covid, e 2) la crescente disoccupazione nel paese, che da mesi porta centinaia di migliaia di israeliani a manifestare per le strade.

Crisi economica

Riguardo alla disoccupazione, ecco alcuni dati: il 23 settembre Israele aveva 837.000 disoccupati, il 12% circa della popolazione. L’Istituto Nazionale delle Assicurazioni ha stimato che il secondo lockdown, annunciato il 13 settembre, causerà la perdita di altri 200.000 posti di lavoro come minimo. A luglio, il 46,5% degli israeliani temeva di non riuscire ad arrivare a fine mese.

Questa situazione è del tutto inedita per gli israeliani, che al contrario degli italiani non erano “abituati” ad affrontare crisi economiche: nel febbraio 2020, quando si scoprirono i primi contagiati nel nostro paese, Israele aveva solo il 3,3% di disoccupati, il dato più basso degli ultimi 30 anni. Essi venivano da un periodo in cui l’economia cresceva a dismisura, e fino a meno a qualche mese fa nessuno poteva prevedere un tale stravolgimento della situazione.

La crisi ha però fatto emergere vari problemi preesistenti che però adesso stanno emergendo in maniera preoccupante: stando alle classifiche di metà anno, Israele è il 9° paese al mondo per costo della vita (l’Italia e gli Stati Uniti, per fare un confronto, sono rispettivamente al 28° e al 21° posto). Inoltre, come spiegava nel febbraio 2019 Vito Anav, economista ed ex-presidente della comunità italiana in Israele, nel corso degli anni il divario tra ricchi e poveri è aumentato esponenzialmente: nel 1948, uno spazzino della Bank Leumi guadagnava 6 volte meno del direttore generale; oggi invece guadagna almeno 200 volte meno. Inoltre, Israele investiva una percentuale bassa del PIL nelle specializzazioni per il mercato del lavoro; l’anno scorso investiva lo 0,6% del PIL, mentre un paese come la Danimarca investiva il 3,2%.

Le nuove tecnologie

Negli ultimi anni lo Stato Ebraico è stato elogiato da più parti per i suoi massicci investimenti nell’innovazione e nelle nuove tecnologie, tanto da ricevere il soprannome di Start-up Nation (che già nel 2009 era il titolo di un libro di successo sull’argomento). Le sue invenzioni nel campo delle rinnovabili e della tutela ambientale, poi, rispecchiano i valori espressi dal concetto di Tikkun Olam (“riparare il mondo”).

Nella situazione attuale, tuttavia, l’innovazione potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio: infatti, molti studi hanno preso in considerazione l’idea che nei prossimi 10 – 15 anni i robot e l’intelligenza artificiale toglieranno più posti di lavoro di quanti se ne verranno a creare. Già ad agosto di quest’anno, il Jerusalem Post riportava come in molti alberghi e ristoranti americani i dipendenti in carne ed ossa sono stati rimpiazzati da automi, anche perché questi non possono trasmettere il virus. E anche se questi fatti potrebbero essere frutto di sensazionalismo e i robot non dovessero “sostituirci”, non dobbiamo dimenticare la lezione più importante legata alla pandemia: bisogna sempre essere pronti al peggio e non abbassare mai la guardia.

Possibili soluzioni

Per essere certi che le nuove tecnologie non creino una disoccupazione di massa a lungo termine, servono 2 tipi di interventi:

  • Il primo, da parte delle istituzioni pubbliche, è stato già applicato in passato, e consiste nel mettere al bando determinate aziende o tecnologie se queste comportano più rischi che vantaggi per la società. Nel dicembre 2017, ad esempio, il comune di Tel Aviv mise al bando le attività di Uber nel proprio territorio a seguito delle proteste dei tassisti locali, che denunciavano le pratiche scorrette e talvolta illegali dell’azienda americana. Nello stesso periodo, l’antitrust israeliana propose di mettere al bando le compagnie che praticavano scambi e acquisti tramite bitcoin e altre monete digitali, al fine di tutelare gli investitori.
  • Il secondo, da parte di lavoratori e sindacati, sta nel fare pressione sulla politica e sulle aziende affinché non vengano sostituiti dai robot, almeno in determinati casi: una protesta di questo tipo è avvenuta negli Stati Uniti nel 2018, quando i dipendenti di un albergo di San Francisco hanno indetto uno sciopero per chiedere protezione dalla potenziale minaccia delle macchine che potevano rimpiazzarli.

Le politiche sopra descritte potrebbero apparire blasfeme per coloro che vedono Israele come una terra promessa, oltre che per il Popolo Ebraico, anche per la tecnologia e il libero mercato. Ma se si studia a fondo la storia della politica israeliana, si scopre che in origine il movimento sionista aveva posizioni ben diverse in ambito economico da quelle odierne: come ricordava nel 2019 la rivista Keshet, non solo il sionismo socialista era contro il privato e per la collettività, ma anche il padre della destra revisionista, Ze’ev Jabotinsky, era contrario a un sistema di libero mercato, e auspicava piuttosto un economia basata sulle corporazioni. La destra israeliana ha cominciato ad abbracciare il liberismo negli anni ’70, sotto la guida di Menachem Begin, il che gli permise nel 1977 di diventare il primo premier israeliano conservatore dopo 29 anni di governi di sinistra. Queste politiche hanno portato molti benefici all’economia israeliana, ma se portati all’estremo rischiano di ottenere l’effetto opposto.

Israele era e resta un modello sotto molti aspetti, ma la protezione sociale non è tra questi al momento. Oggi la sfida più grande che deve affrontare non è più rappresentata dal terrorismo palestinese, o dall’Iran contro il quale sta trovando sempre più alleati tra gli altri paesi della regione; e nemmeno dal BDS, che alla lunga si è rivelato più un “fastidio” che una reale minaccia. Proteggere le fasce più vulnerabili della società, allo stesso modo dell’ambiente, può essere un modo per riparare il mondo.


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