Il nichilismo: un’eresia ebraica? Gershom Scholem di fronte al rifiuto radicale
La cultura occidentale non si è rapportata con uguale interesse e dedizione ai grandi temi che la tradizione filosofico-religiosa le ha offerto. Mi riferisco propriamente a quei macro argomenti di carattere morale da una parte e ai supposti tentativi di negarne la portata dall’altra. Le ragioni sono diverse: mancato interesse, scarsa attenzione ma soprattutto la paura di un ipotetico scacco a quei principi che la nostra società, imbevuta di religiosità, ha posto come fondamenta. Se ogni religione è una risposta al problema della morte e del male, il nichilismo non è banale negazione della vita o almeno non lo è in modo condizionante. E’ piuttosto un’anomala richiesta di liberazione ed emancipazione da una cornice sociale che non sembra rispondere ai bisogni di coloro che ne fanno parte. Il nichilismo è fenomeno complesso, troppo controverso per essere bollato come semplice rifiuto della vita e delle norme vigenti. E’ piuttosto ideologia della morte e insieme della vita, rovesciamento continuo che mai si cristallizza.
Ciò che il saggio di Gershom Scholem “Il nichilismo come fenomeno religioso” tenta di fare è strappare il tema a secoli di critica o dimenticanza. Intende inoltre proporre un metodo di analisi che sia imparziale, appassionato e che non lasci adito a sottintesi: nessuno spazio per il giudizio personale ma tanto per la verità storica. Come molti anche Scholem mostra un feticcio per le parole e il loro significato. Si spiega così il richiamo alla portata storica della parola. Nichilismo definisce nella Russia dell’Ottocento la decadenza seguita alla caduta degli antichi ordinamenti di valori assumendo aspetti spirituali, sociali e politici.
Nell’epoca della fisica moderna descrive il riguardo per un’unica verità: quella scientifica nelle vesti del materialismo filosofico prima e politico poi, tanto piacque agli anarchici che su tale concetto poggiarono la propria propaganda. Fu utilizzata anche nel linguaggio filosofico in Germania e Francia da parte di alcuni conservatori che, intendendo contrastare le correnti critiche verso la religione, l’idealismo tedesco e l’idealismo radicale, si dicevano ortodossi. E ancora si propone come caso limite di scetticismo in Jaspers, che ebbe il merito di avervi individuato impulsi diversi: uno di critica ai sistemi di valori che impediscono la natura dell’uomo e un altro, più radicale, che rifiuta l’intera realtà. Quest’ultimo presenta due facce: una quietistica di matrice gnostica che spinge l’animo alla contemplazione e in cui “la sublime unità di cosmo e Dio viene scissa, una frattura immensa si apre” – per dirla con Hans Jonas – e un’altra, di formazione neoplatonica, che dà vita alla corrente medievale del “Libero spirito”, spingendo verso la trasgressione anarchica. Accanto a queste tipologie di nichilismo, Scholem ne delinea un’altra: il letteralismo antitradizionale di stampo ebraico che si sviluppa in un contesto in cui dovrebbe essere la Norma a dettare legge. Eppure fenomeni di tal genere si affacciano in diversi periodi: dapprima con il caraismo, nato tra l’VIII e il IX secolo in Mesopotamia, che non riconosce la tradizione orale, e poi con il frankismo di matrice sabbatiana che, scendendo nell’abisso, annienta le leggi perseguendo un’ideologia militarista e, riprendendo la prassi marrana, si appella al silenzio.
Ciò che il testo vuole rilevare è come il nichilismo possa essere tanto il frutto di crisi quanto la scintilla verso un illuminismo tutto ebraico. I frankisti rappresentano esemplarmente la forma più radicale di questa eresia ebraica popolare che, gravitando intorno alla figura dispotica di Jacob Frank, giunge fino al Settecento inoltrato. Le opere di Scholem dimostrano ancora una volta l’impossibilità di inquadrare l’uomo una volta per tutte. Con la convinzione che “impulsi anarchici e sfrenati […] giacciono nel profondo di ogni animo umano” egli adotta un atteggiamento che più che anarchico potrebbe dirsi antidogmatico o meglio ancora di difesa in nome di una più che nobile indipendenza intellettuale. Una libertà che, come scrisse nelle pagine del diario datate al 1945, pagò a caro prezzo, rendendolo solo, prima come ebreo e poi come sionista.
Da Shalom.it
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