Il golem di Primo Levi

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Una forza incombente chiede all’uomo di superare gli altri, la natura e se stessi. Dal tentativo vecchio quanto la civiltà di soverchiare i limiti nasce talvolta la paura o l’onore. La capacità di oltrepassare i confini appaga l’uomo che da impasto di terra qual era ieri, passa oggi a dominare il simile e la natura: infrange i codici scritti e orali sciogliendone i vincoli. Vuole sottrarsi alle regole che lo spazio e il tempo gli pongono, lancia l’atto di sfida nei confronti di Dio e non rinuncia alla posta in gioco.

La leggenda del golem, l’essere d’argilla che prende vita mediante formule magiche, ricorda l’Adamo primigenio cui mancava l’infusione dell’anima per diventare uomo. Se ieri la storia era relegata al carattere mitico, oggi mi sembra che finisca con l’assumere sempre più i contorni della realtà. Il golem cui mi riferisco non è di terracotta né tantomeno è chiamato in vita dalla parola che gli viene tracciata sulla fronte, al contrario di quello creato nel Cinquecento dal leggendario rabbino di Praga Bezalel. Golem oggi può essere tante cose: la natura – nel senso ampio del termine -, la tecnologia, la bioetica e non solo. Potrei tirare in ballo la robotica e non sarei la prima.

Primo Levi nel racconto “Il servo” allude proprio a questo: a quella strana compresenza di vecchio e nuovo, una miscela che ha l’odore dell’antico ma che non parla latino. Il rabbino Arié, acciaccato oramai dall’età, decise dunque di costruire un golem che gli fosse fedele e la cui precisione e completezza stessero nella cura posta nella creazione. Se prendi duecentoquaranta libbre d’argilla e dai loro forma d’uomo ne verrà un idolo: ciò che vogliono i gentili ma non gli ebrei. Per fare un uomo, il tragitto pare più irto, perché le istruzioni sono più numerose, essendo inscritte in ogni nostro minuscolo seme, e questo il rabbino Arié lo sapeva, poiché aveva visto nascere e crescere figli numerosi, e aveva considerato le loro fattezze. Non voleva far nascere un uomo ma un lavoratore, l’equivalente della nostra lavastoviglie si può dire? Ciò che nella lingua boema si chiama robot.

L’intenzione di Levi era sì di parafrasare la storia ma anche di attualizzarla,  preludendone degli aspetti futuri. Essa ha superato il suo autore, come spesso avviene con le opere di quegli uomini d’ingegno veramente capaci: parla del mondo di oggi, al pubblico più e meno colto, ai ragazzi con gli iPhone e alle casalinghe con le lavastoviglie.
Se ieri questo mondo appariva mediamente lontano, un po’ ambiguo seppur curioso oggi si mostra come realtà in cui tutti viviamo e da cui traiamo molto: risparmiamo del tempo e semplifichiamo la vita ma finiamo per ledere alla capacità individuale che ci contraddistingue, il lavoro o meglio ancora il saper fare. Tuttavia non credo che la tecnologia diminuisca le fatiche, vorrebbe farlo ma non sempre vi riesce, possiamo dire che le muta.

Levi ebbe sì un’intuizione, forse buffa quanto lungimirante: il suo golem è il padre delle moderne tecnologie. Incuriosito com’era dall’indagarne l’influsso sul vivere quotidiano pone delle domande cui stenta a trovar risposte. Quale è lo scarto tra noi e loro? Come studiarle e a quali discipline appellarsi? Si può chiedere aiuto all’etica, all’ingegneria, alla filosofia e ancora all’antropologia, un giusto compromesso che dà uguale statuto a materie “umanistiche” quanto “scientifiche”. Una questione però si impone sulle altre non riesce a trovare risposta: avranno questi robot la capacità di ribellarsi ai loro creatori, come fece l’uomo con Dio e il golem con il rabbino?

Marta Spizzichino, di Roma, studia filosofia alla Sapienza


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