Il film omaggio a Rita Levi Montalcini, tra realtà e finzione

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di Susanna Winkler  

 

A quasi otto anni di distanza dalla sua scomparsa, avvenuta il 30 dicembre 2012, il 26 novembre scorso è andato in onda su Rai Uno il film Rita Levi-Montalcini, diretto da Alberto Negrin. Magistralmente interpretato da Elena Sofia Ricci, il biopic racconta il momento culminante nella carriera della famosa scienziata, dalla consegna del Premio Nobel per la Medicina nel 1986 al suo rientro in Italia quando, per la sua notorietà, inizia ad essere travolta da lettere di aiuto inviatele da persone in gravi condizioni di salute. Anche in un documentario trasmesso sempre dalla Rai nel 2019 dedicato alla sua figura, Paolo Mieli afferma che la Montalcini “diventerà un personaggio molto amato e molto conosciuto dal pubblico italiano. […] Era, nel campo della scienza e in quello internazionale, una personalità fra le più stimate dell’intero Novecento.”

Il film mescola realtà e finzione, e il regista ha voluto mettere in evidenza il desiderio della Montalcini di raggiungere i giovani, e in particolare gli adolescenti delle scuole medie; per questo accetta l’invito ad un concerto a Torino, proprio pochi giorni dopo il rientro da Stoccolma. Durante il concerto, la dodicenne violinista Elena sviene e, a seguito di alcuni controlli clinici, le viene diagnosticata una patologia neurologica. Questo episodio farà risvegliare nella scienziata la volontà di studiare e di fare ricerca, dopo un primo momento di sconforto, perché pur avendo vinto il Nobel non è effettivamente riuscita a trovare un’applicazione a livello clinico delle sue ricerche.

I momenti della sua vita prima della consegna del Nobel sono inseriti come flashback nei racconti che la Montalcini offre alla giovane Elena. Tra questi compaiono i giochi con le amiche di infanzia, che le chiedono il motivo per cui lei non frequenti il catechismo; la Seconda Guerra Mondiale e le persecuzioni naziste, che l’hanno costretta a lasciare prima l’Istituto di Anatomia Umana, insieme allo stesso direttore, il professor Giuseppe Levi (padre della scrittrice Natalia Ginzburg), poi la stessa Torino; la possibilità di proseguire le sue ricerche in Belgio nel 1939 e l’ultimo saluto al professor Levi nel 1965.

Elena Sofia Ricci riesce a restituire l’immagine di una donna forte, che sfida le regole sin da giovanissima quando, contro la volontà del padre, che riteneva incompatibili i ruoli di madre e di moglie con una vita professionale, decide di prendere la maturità classica per potersi iscrivere alla facoltà di medicina di Torino, un ambiente a prevalenza maschile. Sfida la burocrazia, quando si reca di notte in laboratorio, perché c’è tempo da perdere se si vuole salvare la vista della giovane violinista; sfida le tradizioni, dichiarando fin da subito di non avere intenzione di sposarsi o di avere figli; sfida i pregiudizi di genere, perché è lei a dare ordini su come procedere nelle sperimentazioni agli altri medici del laboratorio, Franco e il giovane Lamberti. Ricordando le parole del Presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, “ha motivato i giovani e in particolare le giovani donne a sviluppare le proprie potenzialità, percorrendo, se necessario, le strade più impervie, senza mai perdersi d’animo di fronte alle incognite che il futuro propone.”


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