Torno oggi in Italia dopo quattro mesi trascorsi in Germania. Mi sembra di aver lasciato casa per recarmi in un luogo cui non so più quale nome dare: patria? casa? famiglia?
Sono sul pullman e sono diretta a Genova, mancano ancora due ore circa. C’è un ragazzo seduto davanti a me con le treccine che parla tra sé con voce tremolante e con un italiano un po’ malconcio. L’autista gli intima di scendere, altrimenti sarà costretto a chiamare la polizia e il ragazzo controbatte facendogli notare che è una persona cattiva. Mi sento così in pena, una sensazione che è empatia, vicinanza ma anche distacco per una situazione che finora avevo letto solo sui giornali. Intorno a me sembra regnare l’indifferenza assoluta.
L’autista vuole far scendere il ragazzo che sembra avere il passaporto scaduto e, timoroso dei gendarmi al confine francese, gli dice che chiamerà la polizia. Mi sento una spettatrice di una scena che avrei preferito non vedere perché simile a quella che i miei nonni avrebbero potuto vivere 75 anni fa. Controllo nel portafoglio se ho un po’ di soldi, qualche moneta o banconota ma niente, sembra che io non possa compiere la buona azione per cause di forza maggiore. Mi chiedo però se sia giusto parlare di cause di forza maggiore, avrei potuto trovare un altro modo per pagargli il biglietto e mi sento anch’io un’indifferente, una di quelli che sta lì a guardare perché forse andare a cercare un bancomat dove prelevare avrebbe voluto dire perdere il pullman. Non so quale nome dare a tutto questo: al sorrisetto dell’autista che da paladino chiama i poliziotti in difesa della puntualità del pullman e della propria pelle e alla situazione stessa che mi pare tanto complessa da non riuscire a trovare il buono e il cattivo. Perché di pancia non avrei aspettato un solo minuto per dare i soldi necessari al ragazzo, che ha preferito che la polizia lo venisse a prendere piuttosto che scendere. Però razionalmente (e mi chiedo se sia l’avverbio giusto da usare) ho pensato alle conseguenze che il mio gesto avrebbe potuto avere e al fatto che io questo ragazzo non lo conosco, che sarebbe potuto essere un delinquente.
Poi ricordo a me stessa che la delinquenza nasce dove non c’è integrazione e mi chiedo come sia possibile risolvere un problema che ci sovrasta e che l’Italia è così incapace a gestire. In Germania ho visto tanti immigrati tutti perfettamente integrati. In cosa sbagliamo? Cosa aspettarsi da un paese in cui neanche i ragazzi che scappano dalla guerra e dalla fame vogliono rimanere? Non credo dipenda solo dalle poche prospettive economiche che l’Italia presenta, credo che quel che ho visto oggi sia sintomo o risultato – ancora non so – di fratture ben più grandi. E lo dico bisbigliando con un po’ di incertezza perché riconosco la complessità di tutto questo: non in mio nome.