Hevron, la mia prima volta al fronte (parte II)

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hebron2Ci fu a malapena tempo di entrare in uno dei caravan adibiti a dormitorio e di scegliersi una branda che fummo subito chiamati a rapporto nel piazzale dal nostro sergente, che iniziò a istruirci su quelli che sarebbero stati i nostri compiti per quel fine settimana. In effetti non si trattava di niente di nuovo rispetto a quello che si faceva di solito quando si trascorreva lo Shabat  in caserma: un circolo continuo di guardie inframezzate da tempi morti in cui riposare.

Ormai eravamo già da alcuni mesi avvezzi a una routine che scandiva e avrebbe inesorabilmente scandito tutti i futuri weekend da trascorrere sotto le insegne di Tzahal. Ciononostante la sensazione era quella di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di vero. In fin dei conti la maggior parte di noi si era arruolata con il desiderio di prestare un servizio che fosse “significativo” e “importante”.

Tre anni da dedicare alla difesa di quella che è la casa comune di tutto il popolo ebraico e non solo di coloro che vivono in Israele. Non tutti i miei commilitoni erano nati e cresciuti in Israele, diversi, oltre a me, provenivano dagli angoli più disparati della diaspora: Stati Uniti, Italia, Cile, Russia, Inghilterra e Francia giusto per citarne alcuni. Tutti noi eravamo accomunati dall’idea di arruolarci per difendere Israele e dare il massimo contributo possibile alla sua sicurezza; e in quel preciso momento capimmo che saremmo stati accontentati. Il sergente ci istruì sulle postazioni di guardia, sugli orari dei turni e sulle regole di ingaggio e le procedure che avremmo dovuto seguire in caso di necessità. Poi selezionò  quelli di noi che avrebbero dovuto montare la guardia per primi e i successivi che avrebbero dato loro il cambio quattro ore più tardi.

hevron3Io fui scelto trai primi. La mia postazione di guardia si trovava sopra il tetto di una casa non lontana dall’avamposto in cui eravamo alloggiati. La raggiunsi attraverso un percorso tortuoso che si dipanava tra i tetti di alcune abitazioni abbandonate. Ad attendermi trovai un soldato dei paracadutisti che aveva un’aria parecchio stanca e annoiata e che, appena mi vide, sembrò ravvivarsi nel vedere l’arrivo non solo del cambio ma anche di un volto nuovo, un volto diverso da tutti quelli che aveva visto nelle ultime settimane. Trascorremmo alcuni minuti chiacchierando dell’esercito e dei progetti che aveva per la sua vita dopo il congedo che per lui era ormai davvero vicino e infine dei luoghi nei quali aveva prestato servizio nel corso di tre anni. Alla fine mi cedette il binocolo e mi spiegò cosa avrei dovuto fare in caso avvistassi una situazione di minaccia e si allontanò con passo veloce lasciando me, per la prima volta al fronte, a compiere quel dovere che tanto avevo desiderato  adempiere fin dall’infanzia: proteggere il popolo ebraico e difenderlo in Terra di Israele.

(parte II – fine)

Daniel Recanati
Daniel Recanati


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