22 Novembre 20204min

“Gli Ebrei e i Giapponesi”, storia di un caso letterario

giappo

di Nathan Greppi 

 

Nell’epoca dei social, in cui tutti si mettono in mostra per le questioni più insignificanti, è difficile pensare che qualcuno possa scrivere un libro nascondendo la propria identità, e creandosene una falsa. Certo, ci sono casi come quello di Elena Ferrante, ma si tratta di eccezioni. Tra queste eccezioni va annoverato il caso di Gli Ebrei e i Giapponesi, un controverso saggio pubblicato esattamente 50 anni fa e il cui autore si firmava come Isaia Ben Dasan.

Il testo, uscito originariamente in giapponese nel 1970 e tradotto in italiano nel 1986 dall’editore Spirali, tenta di analizzare analogie e differenze tra la cultura ebraica e quella nipponica: partendo da come i due popoli considerano concetti come la sicurezza personale, influenzati dai diversi contesti geografici e politici in cui sono nati. Pur avendo vissuto semi-isolati per gran parte della loro storia, anche a causa della loro posizione di arcipelago, i giapponesi hanno avuto molta più libertà e patito meno ingiustizie degli ebrei, costretti a migrare da un luogo all’altro. Non che non ci siano state persecuzioni: così come gli ebrei marrani si fingevano cristiani agli occhi dell’Inquisizione, i giapponesi convertiti al cristianesimo si nascondevano dalle autorità che punivano anche con la morte chi diventava cristiano.

Quando uscì in Giappone, il libro divenne un vero e proprio best-seller, tanto da vendere oltre 500.000 copie in un anno. Nell’aprile 1971 vinse il Premio Oya, il più importante per la saggistica giapponese. L’allora Primo Ministro giapponese Eisaku Sato disse di aver letto il libro, mentre Rav Marvin Tokayer, rabbino capo della Comunità Ebraica di Tokyo dal 1968 al 1976, disse che l’autore “combina un’intima conoscenza dei giapponesi con una conoscenza, un’ammirazione e un rispetto considerevoli per gli ebrei.”

Ma il libro, più che per il suo contenuto, era noto per l’alone di mistero che avvolgeva l’autore: il sedicente “Ben Dasan” non fece mai alcuna apparizione pubblica, e anche quando vinse l’Oya fu un suo conoscente, un docente americano dell’Università dell’Indiana, a ritirare il premio per conto suo. Il mistero fece talmente discutere che quando il libro venne tradotto in inglese, persino il New York Times scrisse un articolo in merito.

Stando all’editore dell’opera Shichihei Yamamoto, Ben Dasan sarebbe nato nella città giapponese di Kobe nel 1918 da genitori ebrei estoni, e sarebbe cresciuto negli Stati Uniti. Sarebbe tornato in Giappone durante la Guerra lavorando per i servizi segreti alleati. In seguito avrebbe vissuto in Israele dal 1947 al 1950, per poi tornare in Giappone e rimanerci fino al 1955, quando tornò a vivere negli USA.

Tutta questa biografia alla fine si rivelò una bufala, e venne fuori che dietro lo pseudonimo dell’”ebreo estone” in realtà si celava l’editore Yamamoto, che aveva attuato uno pseudonimo “ebraico” come strategia di marketing.

 


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