George Floyd e la questione razziale
di Luca Clementi
George Floyd è morto solo perché nero. Gli è stato premuto il ginocchio sul collo da un poliziotto per quasi 9 minuti, fino al definitivo soffocamento. Il tutto durante un controllo per sospetta contraffazione di banconote.
Immaginate se al posto di Floyd ci fosse stato un ebreo. Non deve essere troppo difficile, visto che questo maledetto ‘’solo perché’’ è tra i più grandi leitmotiv della nostra storia: Pittsburgh, Tolosa, Roma, ma anche Susa. ‘’Solo perché ebrei’’. Quante volte lo abbiamo sentito?
Immaginate di essere un cittadino ebreo di Minneapolis. Neanche accade la notizia che parte il tam-tam di messaggi, il cellulare impazzisce. Poi quel video, che forse non avete neanche il coraggio di guardare. Un vostro amico, o anche un conoscente, che soffoca per 9 minuti e poi muore: rabbia, impotenza, frustrazione. ‘’E’ successo di nuovo’’.
Ecco, soffermiamoci su questo: ‘’E’ successo di nuovo’’. L’omicidio Floyd non è nulla di nuovo. La disparità di trattamento delle Forze dell’Ordine statunitensi nei confronti degli afroamericani non è qualcosa di nuovo. Lo denunciava il compianto rapper Tupac nel 1998 nel capolavoro Changes: ‘’Ai poliziotti non importa nulla di un nero. Premono il grilletto e diventano eroi’’.
Sappiamo cosa significa: il non-caso isolato, la consapevolezza del filo rosso che collega noi con gli schiavi d’Egitto, con Babilonia, con i ghetti, con i rastrellamenti, così come un afroamericano ha lo stesso filo con la schiavitù, con Emmett Till e Rosa Parks. La chiave di lettura di una minoranza nei confronti di un episodio di violenza ai danni di un’altra minoranza non è la stessa di un qualunque altro cittadino. C’è tutta un’altra consapevolezza, un’interiorizzazione differente dell’accaduto.
Qualcuno dirà: ‘’Si, ma lui era accusato di falsificazione di banconote.’’ E qui vanno chiariti un paio di punti:
- L’accusa non è una certezza, né tantomeno una sentenza di morte.
- È il contesto sociale di sistematica esclusione che hanno vissuto gli afroamericani per centinaia di anni ad aver portato l’arretratezza sociale, la criminalità e tutto il resto. E anche qui, considerato che lo stereotipo di natura economica contro gli ebrei nasce dalle bolle papali che ci obbligavano a svolgere il mestiere dell’usuraio, dovremmo con ancora più consapevolezza comprendere quanto il caso non sia isolato, ma frutto di un odio ben radicato all’interno della società.
Allora cosa ha di così speciale? L’evidenza. E’ stato fatto un video che ritrae chiaramente l’accaduto. Né più né meno dell’ormai virale elefante ucciso con un ananas imbottito di esplosivo. Ci serviva questo per sapere che quotidianamente il mondo animale viene sfruttato e brutalmente ucciso, o che negli Stati Uniti d’America essere nero alle volte è sufficiente per avere una condanna a morte senza appello?
No, lo spettacolo va avanti da secoli. Si sono solamente spostati i riflettori. Questo dovremmo ricordarcelo tutte le volte che c’è un’ingiustizia nel mondo e nessuno ne parla, soltanto perché non è mainstream. Come ebrei, perché una volta davanti ai riflettori c’eravamo noi; e come uomini, perché è questo ciò che siamo.
Il lato positivo di questa incoerenza è che almeno se n’è parlato: sono state riempite tantissime piazze (con sommessa – ma neanche tanto – imprecazione da parte del comitato tecnico scientifico), e il mondo extra-statunitense ha risposto bene alla chiamata. Roma, Torino, Milano, Firenze: una folla impressionante di italiani a manifestare il proprio dissenso. Interessante, poi, l’iniziativa di rimanere in silenzio e in ginocchio per 8 minuti e 46 secondi, lo stesso tempo di durata del soffocamento di Floyd.
Gianna Floyd, la figlia di 6 anni di George, ha detto recentemente a Good Morning America: ‘’Papà ha cambiato il Mondo.’’ La speranza dei bambini è tra i più grandi patrimoni che possediamo. Forse questo episodio non ha cambiato il mondo, ma ha fatto capire a tanti che la morte di George Floyd non dovrà essere vana.
Esprimo la mia più sincera solidarietà nei confronti della famiglia Floyd e della comunità afroamericana.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.