Difendere le donne, poeti e letterati ebrei nel XVI secolo

In questi giorni una decina di anni fa, nel 2005, nella città di Lucca, si era appena concluso il IX Convegno Internazionale « Italia Judaica ». L’argomento scelto in quell’anno era «Donne nella storia degli ebrei d’Italia».
Teso a sottolineare la convergenza esistente tra la storia degli ebrei e la storia delle donne, il convegno si proponeva di analizzare, in particolare, la condizione e il ruolo delle donne nel mondo ebraico italiano nell’arco degli ultimi dieci secoli. Quella di Lucca è solo una delle numerose iniziative che possono dar conto dell’interesse risvegliatosi nel mondo ebraico negli ultimi anni circa la questione femminile, in misura proporzionale alla nascita dei gender studies, e più in particolare della gender history.
L’ebraismo, con il suo millenario patrimonio religioso e culturale, si presta ad essere un ricchissimo bacino al quale attingere per portare a termine riflessioni, discussioni e studi sul ruolo della donna, sui diritti che devono esserle riconosciuti, sulle sue responsabilità e sui suoi compiti, differenti da quelli dell’uomo, ma non per questo necessariamente subalterni. Ed è anche attraverso la microstoria delle vicende di donne ebree vissute nei secoli passati, che si riescono a illuminare dei vuoti, dei silenzi, delle zone lasciate sino ad ora in ombra.
Donne ebree audaci, intraprendenti e autonome popolano il XVI secolo: poetesse (la veneziana Sara Copio Sullam e la romana Debora Ascarelli), imprenditrici e benefattrici (Gracia Nasi), donne medico (si pensi alle ricerche di Angela Scandaliato sulla tradizione ginecologica tutta femminile). Già nel XV secolo alcune donne dovevano godere di ampia autonomia se, come viene messo in luce da Yarhona Pinhas (nel volume La saggezza velata, Giuntina, Firenze 2004), ordinavano agli scribi addetti alla compilazione dei siddurim per uso personale, una variante liturgica della tefillà del mattino.
Si trova scritto, infatti, differentemente da quanto si recita oggi, “Benedetto il Signore che mi fece donna, Benedetto che non mi fece schiava…”. Già nel ‘500 si discuteva su come interpretare la berakhà del mattino – “Benedetto il Signore che mi fece uomo e non donna” – e si agiva in merito? Sicuramente no, era pur sempre il XVI secolo. Però è chiaro che ci si fosse già accorti della difficoltà della donna al momento della prima preghiera della giornata. Sebbene questi documenti non siano prova di un dibattito, dimostrano una notevole sensibilità circa la questione della differenza del genere femminile rispetto a quello maschile. Una sensibilità che aveva permesso di coniare una variante, seppur limitata, della liturgia tradizionale. Insomma, senza dubbio, si può considerare questa vicenda come un episodio di coscienza di genere.
Del resto, la storia degli ebrei in Italia tramanda la memoria di accesi dibattiti tra rabbini e letterati ebrei e non ebrei che, inserendosi in una tradizione letteraria molto nota al tempo, la querelle des femmes, si esprimevano circa la difesa o il biasimo delle donne. La lista è lunga.
Nel 1490 Avraham de Sarteano, un poeta toscano, scrive un poemetto in terzine, Il misogino, dando avvio a una vera e propria tenzone poetica con altri due letterati che svolgono il ruolo di difensori delle donne: Avigdor da Fano, che oltre a lodare gli esempi di virtù muliebre presenti nella Torah, prende a elogiare anche alcune sue contemporanee, ed Elia da Genazzano. Anche un altro poeta ebreo, Y Ha Penini scrisse un’opera in difesa del genere muliebre, dal titolo L’amante delle donne. Infine nel 1556, Leone de’ Sommi Portaleone, uno dei più noti letterati di religione ebraica del Rinascimento, termina il suo Magen Nashìm, in italiano la Difesa delle donne, poema dalla straordinaria originalità, giacché composto per metà in lingua ebraica e per metà in lingua italiana. Anche quest’ultimo testo era stato portato a termine in risposta a uno scritto contro il genere femminile dello stesso anno. Le accuse di Avraham de Sarteano, erano le tradizionali critiche dei difetti connaturati, secondo i misogini, all’indole e al temperamento delle donne e, cosa non meno importante, facenti parte di una plurisecolare tradizione misogina che accomuna molte culture d’occidente. Si trattava di accuse circa l’incontinenza, la lussuria, la frode e l’instabilità. Leone de’ Sommi di tutta risposta, definisce la misoginia come una forma di follia, un comportamento contro la logica (sono le donne stesse a mettere al mondo gli uomini, perché serbare rancore contro esse?). Ecco i versi della stanza d’apertura:
Ascoltate le mie parole
Donne sagge honeste e belle
Che unito è il mio canto
Contra queste ciurme felle
Degli vecchi che a le stelle
Hanno innalzato la vostra vergogna
E quind’io vengo in vostro aiuto
Per diffendervi a ogni via.
Leone de’ Sommi denuncia i detrattori delle donne, colpevoli di aver offeso l’onore e la reputazione pubblica del genere femminile. Non è un’intuizione scontata per l’epoca. Il poeta riesce a svincolarsi dalla logica dominante per cui è l’uomo l’unico modello esistente (ovviamente positivo), e riesce a cogliere l’eccellenza e la preziosità delle donne, giungendo a proclamarsi loro fedele difensore. Si tratta di un vero e proprio ribaltamento del codice culturale egemone, di un punto di vista rivoluzionario, in cui tessere l’elogio delle donne non è altro che un atto di giustizia, grazie a cui è possibile riparare un torto inflitto alla parte femminile della società. Inoltre, smaschera con questi versi – pur non essendone consapevole – il pensiero che giudica come difetti e mancanze l’alterità e la differenza rispetto alla centralità di un canone maschile.
Ancor prima che lo stimolo della fiorente produzione editoriale di questi anni, concentratasi spesso su questo tema (nel 1532 Ariosto nell’Orlando Furioso imposta la difesa delle donne, ospitata in numerosi punti del suo capolavoro, in modo analogo), vi è la concezione positiva della donna lampante nella Torah e, più in generale nella cultura ebraica, in cui le matriarche, e non solo loro, sono donne attive, partecipi alla vita del loro popolo, autrici di gesti di fondamentale importanza.
In questo, in fondo, sta la fertilità dei discorsi sulla questione femminile: nel riconoscere la differenza che ogni donna rappresenta rispetto a quella che per secoli è stata una storia tutta maschile. E nel rivendicarla come ricchezza.
Queste e tante altre sono le ragioni che rendono l’appuntamento della Giornata della Cultura Ebraica, dedicata alla donna, un’occasione per perdersi nell’originalità del contributo che l’ebraismo può offrire a un tema così essenziale, oggi, per la nostra società.
Gaia Litrico

L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.