Così l’Unione Sovietica ha inventato l’antisemitismo mascherato da antisionismo

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di Gabriel Venezia

Se il sionismo rappresenta un’ideale di emancipazione e decolonizzazione, perché i comunisti del XXI secolo lo descrivevano come il male assoluto? Nel secondo dopoguerra, il leader sovietico Stalin contendeva con il presidente USA Harry Truman la contesa dei Paesi a supporto delle rispettive dottrine. Nel 1947, al ritiro degli inglesi dalla Palestina mandataria per favorire la creazione di un sistema nuovo, le Nazioni unite votarono il piano di spartizione del territorio in uno Stato ebraico e uno arabo. L’Unione Sovietica, assieme agli Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e altri stati, votarono favorevolmente alla proposta. Tuttavia, Stalin non scelse di sposare l’idea sionista per compassione verso quegli ebrei (tra cui molti suoi connazionali) usciti dal trauma dei campi di sterminio nazisti e delle persecuzioni, quanto per un desiderio di indebolire l’influenza occidentale. Dopo trent’anni di controllo britannico e francese, dagli Accordi di Sykes Picot, Stalin vide per la prima volta la possibilità di creare nella regione un proprio avamposto sul Mediterraneo allineato all’URSS. Differentemente dalla sua previsione, però, la chiara impronta di sinistra (labourista) dei leaders israeliani rimase sempre vicino al sistema occidentale, tenendo le distanze dal sistema oppressivo di Mosca. Perciò qualche anno dopo la risoluzione di spartizione della Palestina, Stalin, dittatore paranoico e instabile, memore anche dell’allontanamento della leadership israeliana, si convinse di un possibile complotto ai suoi danni, detto “complotto dei medici”,che lo spinse a individuare negli ebrei una minaccia. Accusando il sionismo di “ideologia nazionalista”, Stalin trovò il pretesto di colpire gli ebrei accusandoli di tradimento, senza scivolare palesemente nell’antisemitismo da sempre “condannato” dal Partito Comunista. Fu così che, ai suoi occhi, i “sionisti” divennero una classe di controrivoluzionari da perseguitare. Nonostante la sua morte, nel 1956 il successore del PCUS Nikita Cruscev spostò definitivamente il suo favoritismo politico verso Il Cairo. Proprio in quell’anno Gamal Nasser, promotore del pan-arabismo, prese il potere nazionalizzando il canale di Suez come “simbolo” di rottura con l’Occidente. Questa mossa fece iniziare un periodo di collaborazioni tra le due nazioni, portando alla definitiva chiusura delle relazioni tra Israele e URSS, riaperte solo a fine anni Ottanta con l’avvio del socialismo riformato dell’ultimo leader sovietico, Michail Gorbaciov. Il mondo della sinistra, a distanza di anni ancora, risente di questa influenza antisionista dei tempi sovietici, soprattutto riguardo la questione palestinese. Ne siti dei movimenti filocomunisti italiani appaiono teorie e congetture di ogni genere, tra cui la stessa rilettura sulla nascita di Israele, in cui, in maniera antistorica, si crea un paragone tra Nakba e Shoah. È allo stesso tempo anche confusionaria la spaccatura fra questi gruppi. I trotzkisti, ad esempio, settant’anni dopo la morte di Stalin continuano a vedere in lui il colpevole prediletto della creazione di Israele. Tra i marxisti-leninisti, invece, è ricorrente il supporto trasversale verso i terroristi di Hamas e i Jihadisti palestinesi e quindi auspicano alla distruzione di Israele. Il neocomunismo appoggia l’idea di una Palestina libera dal “fiume fino al mare” per “liberare” un “regime d’apartheid”. Per delegittimare questa narrazione basterebbe osservare la Knesset, il Parlamento isrealiano, dove oggi siedono i tre partiti arabo-israeliani di Taal, Hadash e Ra’am. Questo dimostra il grande peso che hanno le varie etnie arabe nel Paese. La visione distorta che dall’esterno viene fatta riguardo la componente araba all’interno della società israeliana si trasforma in denigrazione verso l’intero sistema politico-sociale, che viene bollato come razzista. Ma è da ritenere una rappresentazione totalmente errata, che non rende giustizia a tutte quelle fasce etniche arabe che con il loro lavoro hanno contribuito al benessere dell’intera società. La società israeliana è eterogenea, fatta di uomini e donne, ebrei, cristiani e musulmani, etiopi, drusi e arabi. Nonostante i molti sforzi e i tentativi di cambiare la situazione, la sinistra nostrana, ancora fatica a riconoscere Israele come democrazia e Stato degno di esistere. È lecito criticare le azioni del governo Netanyahu, ma discutere l’esistenza di Israele significa rifiutare il diritto del popolo ebraico a emanciparsi, e quindi significa antisemitismo.


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