Corbyn: tutti i nodi vengono al pettine

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di David Fiorentini 

 

C’è razzismo in tutte le fazioni della politica, e deve essere condannato ogni volta che lo si trova. La storia ha costretto la nostra comunità ad essere capace di cogliere gli estremismi non appena vengono a galla – e l’elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito Laburista nel 2015 ne è un chiaro esempio.” Così esordì in prima pagina il Jewish Chronicle, il principale giornale ebraico inglese, all’avvicinarsi delle elezioni generali del Regno Unito dello scorso dicembre. Un segnale chiaro e inequivocabile, che esprimeva un rifiuto di un leader politico senza precedenti: “Non-ebrei, se avete a cuore il futuro della comunità ebraica, non votate Corbyn.”

L’appello, approvato da circa il 90% degli ebrei, esprimeva l’ultimo stadio dell’aspro legame tra l’ex-leader laburista e il popolo ebraico. Nonostante il legame storico con il partito Laburista, infatti, circa il 40% degli ebrei inglesi addirittura aveva dichiarato di aver voluto prendere in seria considerazione l’aliyah qualora Corbyn avesse vinto le elezioni. Persino l’ex-rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth, Rav Jonathan Sacks z”l, tragicamente scomparso questa settimana all’età di 72 anni, aveva espresso il proprio turbamento definendo situazione “davvero preoccupante”, e il candidato laburista un “pericolo”. Sentimento condiviso anche da Jonathan Goldstein, presidente del Jewish Leadership Council (equivalente inglese della nostra UCEI), che nell’agosto 2018 definì Corbyn “una minaccia esistenziale” per la comunità.

Ma come si è arrivati a questo? La storia personale di Jeremy Corbyn parla chiaro: figlio della sinistra terzomondista degli anni ‘70, finì nell’occhio del ciclone per la prima volta nel 2009 per aver invitato dei rappresentanti di Hamas al parlamento inglese, definendoli “suoi cari amici”. Da quel momento è sempre stato al centro di una lunga serie di critiche e sotto la lente d’ingrandimento della comunità ebraica inglese.

Nel 2010 organizzò un evento sull’equiparazione tra Israele e Germania nazista; nel 2012 inviò un messaggio di supporto al creatore di un murales palesemente di matrice antisemita; nel 2013 fece scalpore una sua dichiarazione secondo cui “i sionisti britannici non cogliessero veramente il senso dell’ironia inglese”; infine, ma si potrebbero citare tanti altri casi, nel 2014 partecipò in Tunisia ad una cerimonia di commemorazione dei terroristi che perpetrarono il Massacro di Monaco del 1972. Per giunta, l’atto ricevette al tempo la dura condanna del Primo Ministro israeliano Netanyahu, al quale Corbyn rispose: “Ciò che merita una inequivoca condanna è l’uccisione di oltre 160 manifestanti palestinesi a Gaza da parte delle truppe israeliane”.

Di fronte a un archivio così nutrito, non meraviglia che molte persone, anche all’interno del partito, ne abbiano preso le distanze. Per citare un esempio, nell’agosto 2018 la parlamentare laburista Margaret Hodge ricevette un’azione disciplinare dal partito dopo aver definito Corbyn un “antisemita” e un “razzista”.

La frattura ha continuato ad espandersi quando persino il Movimento Laburista Ebraico ha passato una mozione di sfiducia nei confronti dell’allora leader, descrivendo il partito come “istituzionalmente antisemita”. Labour infatti è responsabile dell’82% di tutti gli incidenti antisemiti commessi da parlamentari inglesi. Tra l’altro, il 18% di questi sono legati alla figura di Corbyn, che così può vantare il record di aver compiuto da solo il quadruplo degli incidenti di tutti gli altri interi partiti messi insieme.

Successivamente, nel febbraio 2019, le critiche interne si sono fatte sentire ancora di più, quando ben 9 parlamentari hanno abbandonato il partito, rilasciando ulteriori dichiarazioni di “imbarazzo e vergogna” di essere affiliati ad un’entità istituzionalmente antisemita.

Finalmente, nell’ambito della riorganizzazione del partito voluta dal nuovo leader, Sir Keir Starmer, e a seguito del report dell’Equality and Human Rights Commission, Corbyn è stato sospeso. Per il Labour è giunto dunque “il giorno della vergogna”, che ha messo a nudo una volta per tutte quell’indole antisemita che da tempo imperversa nel movimento. Già nel giugno 2020, Starmer aveva rimosso dall’incarico la sua segretaria all’educazione Rebecca Long-Bailey, dopo che questa aveva condiviso un articolo contenente teorie del complotto antisemite. Provvedimenti risolutivi e concreti che non si vedevano dal 2016, in cui ben due importanti esponenti furono sospesi: la parlamentare Naz Shah, la quale suggeriva lo spostamento di Israele dal Medio Oriente agli Stati Uniti, e l’ex sindaco di Londra Ken Livingstone, che dipingeva Adolf Hitler come fervente sionista.

Le reazioni del tempo furono molto contrastanti: in particolare, il parlamentare Chris Williamson affermò che la questione legata all’antisemitismo fosse ampiamente sopravvalutata, sulla falsariga di come oggigiorno Corbyn sostiene che la situazione sia stata totalmente gonfiata dai media. A differenza di allora, però, Corbyn si trova in netta minoranza; il Partito Laburista ha deciso di non continuare a nascondersi, bensì di esporre pubblicamente le proprie ferite. “Chi non ammette l’esistenza del problema, è parte del problema,” ha dichiarato Starmer. Parole forti e inequivocabili, che definiscono chiaramente un momento che forse passerà agli annali della politica britannica.

 


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