Come una rana d’inverno
È gennaio, il sole va e viene nelle giornate d’inverno. Apri il portone e l’aria gelida ti sfiora il viso, esci la sera e cammini per le vie. Fa freddo e non aspetti altro che tornare a casa per riscaldarti con il tepore che le coperte emanano. Il freddo di città ti gela il naso poi le mani e ancora le caviglie.
Questo è quel che noi conosciamo, un freddo che rimane in superficie e che non tocca stomaco e anima. Ad esso se ne contrappone un altro, quello a cui si riferisce Primo Levi nell’ “Ottobre 1944” di “Se questo è un uomo”. Esso è piuttosto il gelo rigido e senza vita che porta alla morte.
L’inverno e il freddo si presentano come i peggiori nemici per gli uomini del Lager che tentano in ogni modo di aggrapparsi alle ore tiepide del sole chiedendogli di trattenersi in cielo ancora un poco. La luce si è fatta pregare per rimanere con loro, ma non ne ha voluto sapere niente e li ha lasciati lì, portando solo nebbia e desolazione. Loro lo sanno, se non sarà morte sarà supplizio e chi non morrà sarà costretto a tenere le mani sotto le ascelle per racimolare un po’ di calore. Inverno vuol dire molto di più degli alberi che perdono le foglie e delle nuvole grigie che coprono il cielo. Anche “fame”, “stanchezza”, “paura” vogliono dire altro. “Esse sono parole libere create e usate da uomini liberi” ed è riduttivo impiegarle così, bisognerebbe piuttosto crearne di nuove. Il freddo è mancanza di stelle e di sole, fame, stanchezza ma anche paura e miseria. Li racchiude tutti ma non ne spiega chiaramente nessuno. Esso vuol dire anche dover mangiare in piedi e avere ferite sulle mani. Irrompe nelle ossa senza chiedere permesso e non se ne va più via.
Ci sono parole che non possono (o meglio provano e non riescono a) chiarire ed esaurire pienamente dei concetti ed è qui che ci si chiede cosa si debba fare. Bisognerebbe forse inventare un nuovo vocabolario? Come scrive Levi: “Se i lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato”.
Come potremmo noi dar vita a nuove parole? Sulle nostre labbra avrebbero altro valore. Così come noi anche l’arte che nasce dalle ceneri di Auschwitz si trova con le spalle al muro non sapendo quale via sia meglio percorrere. Come riferire al mondo ciò che il nazismo ha seminato?
La pittura, la poesia e la musica appaiono mutile e incomplete ora, esse provano a definire un passato prossimo che non è loro e tentano di rappresentarlo munendosi di parole, colori e suoni diversi da quelli di ogni giorno.
Deformare la realtà è menzogna, falsare la verità è reato e creare illusioni è pericoloso. Si potrebbe far appello al silenzio che, privo di forma e materia, è l’unico in grado di racchiudere dentro di sé tutto ciò che ci sarebbe da dire ma che in nessun modo può essere espresso. Esso non è né deve essere sinonimo di oblio e di dimenticanza, ma il mezzo più affidabile con cui si può tentare di definire il tutto.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.