Come racconterò questa storia ai miei figli?

piero

HaTikwa (S. Zarfati) – Sono stata due volte ad Auschwitz con Piero Terracina e avevo dodici anni quando venne a scuola a parlarci del suo libro Il commerciante di bottoni.

Ho due pensieri fissi da quando ho preso conoscenza che lui non c’è più: il primo sono i suoi occhi lucidi di fronte al filo spinato che delimita le baracche che un tempo sono appartenute ai Sinti e ai Rom, il secondo è il suo sorriso discreto vicino a Sami e Selma una sera a cena nell’hotel di Cracovia.

Ho letto di tutto riguardo la sua storia, l’ho incrociata con quella di Nedo Fiano, ho intuito attraverso i loro racconti che Cesare, il compagno di Nedo era proprio il fratello di Piero, che i loro tatuaggi distavano di soli dieci numeri, quando glielo chiesi a scuola fu sorpreso dalla mia attenzione nella lettura, d’altronde avevo dodici anni. Lui ne aveva sedici quando è stato deportato e spesso utilizzava questi termini a chi sbarbatamente gli chiedeva come avesse fatto a scamparla: “Innanzitutto fortuna – rispondeva, poi continuava – e poi sapete a sedici anni si rimane aggrappati alla vita”.

A me quell’aggrappati alla vita mi rimbomba ancora in testa. Quante volte noi giovani diamo questo dono per scontato? Siamo superiori, superbi, superficiali… A sedici anni si rimane aggrappati alla vita? Io a sedici anni non lo so mica se sarei rimasta aggrappata alla vita. Resto spiazzata ogni volta che ci penso. Poi penso al fatto che lui non ha mai avuto figli, a quanto deve essere stato difficile sovrastare la solitudine, per quanto tempo ha convissuto con il senso di colpa, a quanta importanza hanno avuto i suoi amici nella vita.

Piero in ogni conferenza, gita, presenza ufficiale in cui gli si chiedeva di prendere parola ricordava il massacri dei Sinti e dei Rom, che il giorno prima portavano “vita” nella morte di Auschwitz, e il giorno dopo non c’erano più. La caducità così scontata dentro il campo, così sottovalutata oggi. Piero ha deciso di marciare, il 22 Gennaio 1945, l’ultima Marcia della Morte della storia. Dico “ha deciso”, perché l’alternativa era “aspettare i camion dei tedeschi” e se c’era una cosa che aveva imparato in un anno di campo era che la decisione meno istintiva era quella meno sbagliata.

Io non lo so come ci faremo carico di questo fardello, noi, noi giovani e meno giovani, voi che non siete coinvolti, o non volete esserlo. Da quando sono tornata da quei due viaggi, quando guardo un anziano per strada penso: “Chissà che faceva nel 1938?” oppure “Che cosa avrei fatto al posto degli ignavi?”, ora invece il problema impellente riguarda la memoria e il suo assorbimento, e mi chiedo: “Come racconterò questa storia ai miei figli?”


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