“Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani”
HaTikwa, di David Fiorentini
“Norma, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di Padova, viene prelevata da casa e condotta alla scuola di Antignana. Lì viene fissata a un tavolo con mani e piedi legati e diciassette titini abusano di lei per tutta la notte. All’alba, viene gettata nuda nella foiba poco distante. A raccontare la tragica fine di Norma Cossetto, sei dei suoi aguzzini, catturati in seguito dai tedeschi. Al ritiro delle truppe jugoslave, la salma viene fatta recuperare nella foiba, insieme a decine di altri corpi. Norma era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro. Aveva ambedue i seni pugnalati e altre parti del corpo sfregiate. Nel 2005, a sessantadue anni di distanza, il presidente Azeglio Ciampi ha conferito alla memoria di Norma una Medaglia d’oro al merito civile”[1]. Questa è solo una delle tante “vittime dell’odio e della furia sanguinaria slava”, così definita dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2007 riferendosi alle numerose tragedie che negli anni ‘40 gli italiani istriani, fiumani e dalmati hanno subito.
Con lo sfaldamento dei confini e delle istituzioni italiane a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, il territorio fu alla mercè delle formazioni partigiane slovene e croate che incontrastate procedettero all’eliminazione fisica dei “nemici del popolo”. “La scure si abbatté perfino sui rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale, antifascisti, comunisti e non, in un chiaro disegno di pulizia etnica”, scrive il giornalista Jan Bernas, “una strategia del terrore continuata anche a guerra finita, con una chiara volontà politica: indurre gli italiani ad abbandonare le proprie case e jugoslavizzare quei territori”[2]. Un regime dispotico che ha portato circa 350’000 persone a perdere tutto e fuggire dalle proprie case per cercare rifugio nella Madrepatria Italia. Purtroppo, spesso non furono nemmeno accolti con fraternità, poiché accompagnati da sentimenti di astio da parte della popolazione italiana che li vedeva come “fascisti in fuga” dal “paradiso socialista”. Una convinzione così radicata, che all’esodo giuliano-dalmata si contrappose il controesodo di italiani comunisti che decisero di vivere il “sogno socialista”. Ma all’espulsione di Tito dal Cominform, agli italiani, fedeli a Stalin e all’URSS, così come ai cominformisti slavi, si aprirono le porte dei campi di concentramento, come l’isola di Goli Otok, dove migliaia persero la vita.
“Neanche i preti sono sfuggiti alle violenze dei titini, che anzi, in alcuni casi, si sono macchiati di crimini che vanno al di là dell’odio ideologico. Don Angelo Tarticchio di Gallesano d’Istria, parroco di Villa di Rovigno, il 16 dicembre 1943 è stato arrestato dai partigiani, malmenato e dopo ore di tortura, buttato nella foiba di Gallignana. Il suo corpo, riesumato, è stato trovato completamente nudo, con una corona di spine conficcata in testa e i genitali tagliati e messi in bocca. Aveva trentasei anni.”[3] “Chi aveva la “fortuna” di non finire in foiba, veniva mandato nel campo di concentramento di Borovnica, chiamato dall’allora vescovo di Trieste, Antonio Santin, “l’inferno dei morti viventi” per le disumane condizioni di prigionia.”[4]
Leggendo le testimonianze dei sopravvissuti, sia degli esuli che dei cosiddetti rimasti, ciò che colpisce è il loro senso di straniamento, di fronte a una terra abitata e amata da secoli, che d’un tratto non era più la loro. Inizialmente il croato e lo sloveno affiancarono l’italiano, fino a poi soppiantarlo e giungere alla condizione odierna, in cui nelle città di Rijeka (Fiume), Koper (Capodistria), Rovinj (Rovigno) e in tante altre, la cultura italiana è stata ridotta a un fugace alone, tangibile tra i vicoli e tra le parole nostalgiche e commosse dei pochi “rimasti”. “Di quelle sofferenze e di quello sconvolgimento, infatti, l’Italia e la Repubblica non hanno colto nè allora, nè tanto tempo dopo, la portata e il significato nazionale. Anche per colpa di una parte importante della cultura di sinistra, prigioniera dell’ideologia e della guerra fredda”[5].
Finalmente nel 2004 fu istituita la Giornata del Ricordo, un notevole passo avanti nel riconoscimento “della più complessa vicenda del confine orientale”[6], che purtroppo ancora oggi ancora è vittima di negazionismo e revisionismo. Di fronte a questa vicenda storica, non è corretto fare paragoni con la Shoah, non ha fondamento richiamare il preciso intento di sterminare una popolazione, derivato da una elaborata ideologia fondata su presunti criteri di superiorità biologica. Non si può nemmeno dimenticare il peso del lungo conflitto tra diversi regimi, così come la crudeltà dell’occupazione fascista dei territori sloveni e croati. “Ma nessuno spirito di vendetta può giustificare ciò che avvenne. Ad alimentare l’espansionismo nazionalcomunista di Tito fu un intreccio perverso di odio etnico, nazionale e ideologico”:[7] In questa ottica, è stato toccante il discorso del Presidente della Repubblica Mattarella, che riassume chiaramente e sinteticamente la necessità di ricordare il dramma delle foibe e del regime totalitario comunista di Tito: “Il comunismo scatenò, in quelle regioni di confine, una persecuzione contro gli italiani, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste, ma che si risolse in vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione incolpevole”. (..) “Alle vittime di quella persecuzione, ai profughi, ai loro discendenti, rivolgo un pensiero commosso e partecipe. La loro angoscia e le loro sofferenze non dovranno essere mai dimenticate. Esse restano un monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto e malinteso ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali della persona.”
[1] Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, Jan Bernas, Mursia, VII Edizione 2019, p.20
[2] Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, Jan Bernas, Mursia, VII Edizione 2019, p.20
[3] Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, Jan Bernas, Mursia, VII Edizione 2019, p.20
[4] Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, Jan Bernas, Mursia, VII Edizione 2019, p.21
[5] Prefazione a cura di Walter Veltroni di Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, Jan Bernas, Mursia, VII Edizione 2019
[6] Legge 30 Marzo 2004 n.92
[7] Prefazione a cura di Walter Veltroni di Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, Jan Bernas, Mursia, VII Edizione 2019
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.