Bellissime rovine – Tra Atene e Gerusalemme

beit alpha
Una porzione del pavimento mosaicato della sinagoga di Beit Alpha (Israele), di epoca tardo-romana

Prendiamo gli egizi. Abbiamo l’origine della civiltà egizia, il suo fiorire, poi il culmine, la decadenza, la fine. Oggi, abbiamo il museo egizio. Lo stesso si può dire dei babilonesi, degli assiri, i greci, i persiani…

Ho sentito più di una volta rav Roberto Della Rocca ripetere questa frase e contrapporle il modello dell’ebraismo, la sua storia, la sua civiltà. Certo, anche i regni ebraici antichi sono stati distrutti e sulle mura di Gerusalemme sono state issate nei millenni molte bandiere. E come negare l’esistenza ai nostri giorni anche di musei ebraici? Eppure la differenza rimane abissale, perché un talled esposto in un museo ebraico ha innanzitutto un valore d’uso che è ancora attuale, il copricapo di un dignitario egizio no. Mi piace pensare che gli stessi oggetti nei musei ebraici, selezionati in base a criteri materiali e storici, siano soltanto momentaneamente esposti, e in linea di principio possano tornare a essere utilizzabili: un piatto decorato per Pesach, un talled per la preghiera, un bisturi per la circoncisione. Strumenti d’uso, non intangibili bellezze sotto chiave. Anche altre civiltà, ovviamente, hanno prodotto oggetti con valore d’uso, ma si tratta oggi, e spesso già da secoli e millenni, di manufatti che ci parlano in lingue che non capiamo: possiamo ammirare gli ushebti e i vasi canopi del corredo funebre di un faraone, ma come fare a comprendere fino in fondo il compito che erano chiamati a servire, il loro valore d’uso?

Il Tempio di Era, ad Agrigento

Nel II secolo d.C. Pausania scriveva una delle opere geografiche di riferimento del mondo antico, la “Descrizione della Grecia”. Oltre millesettecento anni più tardi l’antropologo James G. Frazer ripercorse le strade e i sentieri seguiti dal viaggiatore greco, compilando una monumentale opera di commento, poi compendiata nel volume “Sulle tracce di Pausania”, pubblicato in Italia da Adelphi. Frazer dà vita a un incantevole gioco di specchi tra la Grecia in cui viaggia a fine Ottocento e quella di Pausania. Lo può fare perché, anche se con inevitabili differenze, entrambe sono costituite da un paesaggio di rovine. Rovine antiche e bellissime, il cui linguaggio è però dimenticato da millenni persino dagli abitanti del luogo e – direbbe qualcuno – da cui gli dei sono da tempo fuggiti. La Grecia di Pausania e di Frazer si bagna nello stesso mare di Tel Aviv, ma quanto è vasta la distanza tra Atene e quella che Theodor Herzl ha definito Altneuland, terra insieme antica e nuova?

Giorgio Berruto

Da Moked.it


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