Babele: la parola e il mito

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Un mosaico del Duomo di Monreale illustra la costruzione della Torre di Babele

Quali siano i fuochi intorno a cui l’ebraismo ruota è questione complessa: si potrebbe dire la Legge, l’identità, la tradizione e non ultima la percezione del tempo. Sappiamo bene che il terreno è instabile: se parlare di identità è problematico in quanto significa far accettare a tutti caratteristiche precise, altrettanto precaria è la questione del tempo e della Legge: del primo perché non tutti lo percepiscono in modo eguale e della Legge perché non tutti la rispettano in modo analogo. Aggiungerei alla lista l’influsso che le parole esercitano: sono pietre direbbe Carlo Levi e non sarebbe l’unico, anche il mito della torre di Babele sa quanto queste siano importanti e l’espressione dell’abuso dell’unità linguistica, simbolo di tracotanza, ce lo dimostra.

Perché costruirsi una città e perché una torre sono domande cui l’ermeneutica ebraica tenta di rispondere. Secondo alcuni la ragione è da rintracciare nella generazione successiva al diluvio il cui unico scopo fu quello di raccogliersi. Il suo unico fine era garantire sicurezza e serenità. Tuttavia se si comprende quale fosse lo scopo della città meno chiaro appare quello della torre, opera vana e illusoria che diventò segno della città stessa. Ecco che le domande si dipanano e le risposte pure. La torre avrebbe dovuto proteggere l’umanità da un secondo diluvio, ma in breve divenne l’emblema del culto idolatrico teso a detronizzare Dio. Essa fu dunque espressione della coscienza che gli uomini ebbero di sé e della loro forza, fu sfida del divino e ricerca, mai conclusa, di immortalità e di un nome. Infatti per impedire la dispersione città e torre non bastano; il nome, coronamento necessario di un’impresa che ha tutti i presupposti per dirsi idolatrica, fu cosa necessaria.

“La confusione delle lingue”, incisione di Gustave Doré

In Bereshit 11, 1-9 si dà il primo significato, più diffuso: Dio fece crollare l’unità per mezzo della barriera linguistica. La confusione provocata non coinvolse solo i gruppi ma anche i singoli individui: nessuno era più in grado di capire il proprio vicino. La disperazione sorse dall’impossibilità di comprendere e farsi comprendere, perché se ascoltare è necessario conoscere è fondamentale. Solo a partire dal Targum Yonathan la confusione creata fu vista come l’origine della varietà delle lingue: Dio scese sulla terra e i Suoi 70 angeli comunicarono le lingue ai 70 popoli che vi risiedevano.

Non mancò chi, interessato all’origine della lingua, si chiese quale ne fosse lo statuto: se fosse nata per convenzione, dettata dai bisogni degli uomini, o da Dio. Le risposte miravano all’unità perché seppur se ne riconoscesse la diversità non si rinunciava a ricercarne l’unità in una che voleva dirsi primigenia. L’artificio, il linguaggio quanto i mattoni, per gli uomini di Babilonia era diventato il fine in sé: la conquista della tecnica, congiunta con la fama e la gloria, qui non trovò limiti. E’ lì che Dio andò ad agire: sul fulcro intorno a cui ruotava il tutto, il linguaggio che, da unico qual era, venne frammentato e poi mescolato.

Da Shalom

Marta Spizzichino, di Roma, studia filosofia alla Sapienza


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