Aborto e contraccezione nell’ebraismo, cosa dicono i Maestri?
di Giulia Limentani
La fede e il monoteismo sono il nucleo stesso del pensiero ebraico, in quanto reggono le fondamenta di tutto il sistema filosofico etico e religioso della tradizione ebraica. Innanzitutto nell’Ebraismo la fede viene considerata una cruciale necessità umana. Questa si esplica attraverso due modalità: la HaAhavat haShem, ossia l’amore per Dio, e la Yirat haShem, la riverenza di Dio. Entrambe derivano dalla fede, ma spesso emanano anche dal contatto e dalla riflessione sulla natura.
L’Ebraismo ha una lunga tradizione etica che accoglie come essenziale il principio della sacralità della vita. La conservazione e la gestione della vita sono pertanto questioni di responsabilità, da cui nasce il dovere di garantire e migliorare la propria esistenza e quella del prossimo.
Dalle esigenze di una migliore qualità della vita si arriva perciò ad un’etica che affida all’uomo le responsabilità che incombono nelle sue decisioni morali. Pertanto, tutto ciò che influisce negativamente nelle sofferenze degli esseri viventi, costituisce turbamento morale rilevante nella più vasta concezione che esalta il concetto di vita. La longevità, secondo l’Ebraismo, non è soltanto un bene, ma è anche il segno di un giusto rapporto con Dio.
Il fatto che la donna abbia la possibilità, ma non l’obbligo, di procreare lascia delle porte aperte all’argomento contraccezione fino all’estremo della sterilizzazione volontaria.
Secondo rabbi Meir, in accordo con la disciplina minoritaria del Talmud, vi sono tre tipi di donne che usano il mokh (il contraccettivo) come strumento di contraccezione: una minorenne, una donna incinta e colei che allatta.
Molti interpreti sostengono che neanche queste donne debbano utilizzare metodi di contraccezione e che debbano fare affidamento sulla misericordia di Dio, per proteggersi dagli eventuali rischi conseguenti dalla gravidanza. In tutte e tre queste situazioni la gestazione può portare con sé dei traumi: la minorenne può concepire, ma è troppo giovane per essere in grado di allevare un bambino o meglio può non essere psicologicamente all’altezza; la donna incinta può sperimentare una gravidanza sovrapposta e questa potrebbe danneggiare il feto, mentre la donna che allatta può trovarsi a dover svezzare il poppante troppo prematuramente.
Il testo è oscuro: non è chiaro, infatti, se rabbi Meir permetta o disapprovi l’uso del mokh, e ciò è fonte di discussione tra i rabbini. Queste ambiguità hanno portato ad un ampio numero di responsi nella halakhah sull’uso della contraccezione.
L’opinione di Rashi è che rabbi Meir permetta l’uso del mokh, quando la donna si trovi in queste tre particolari condizioni, mentre i rabbini di regola non lo consentono. Queste considerazioni stanno alla base delle norme restrittive della halakhah, che prevedono l’uso della contraccezione solamente nel caso in cui la gravidanza arrechi grave pericolo alla vita della madre: in sostanza se ne ammette un uso strettamente terapeutico.
Una parte delle autorità segue l’interpretazione di Rashi del passo di Yevamot 12b (un trattato del Talmud), consentendo, tuttavia, l’uso della contraccezione nei casi in cui sia in pericolo la salute della donna.
In contrasto con le tesi di Rashi, Rabbenu Tam sostiene che Rabbi Meir accordi ai tre casi in oggetto la possibilità di far uso del mokh (sulla base del dettame biblico di proteggere la vita), mentre i Saggi sono di diverso parere. La halakhah concorda con la prima tesi poiché non vi è motivo alcuno di proibire tale comportamento. Comunque, sebbene alcuni sostengano che il mokh deve essere inserita dopo il rapporto come fosse un’assorbente interno post coitale, piuttosto che come una barriera preventiva, la distinzione tra pre e post uso non è fatta in Yevamot 12b o nei commentari di Rashi. Per contro, le opinioni più recenti sembrano esser più permissive, per quanto concerne l’uso della contraccezione, nelle tre situazioni tipo fin ora considerate, estendendo talvolta questa libertà a tutte le donne; diversamente sono molto più restrittive per ciò che riguarda i metodi di contraccezione consentiti.
Le moderne tecniche di contraccezione sono valutate dalla halakhah secondo i principi di prevenzione del hashchatat zèra’, ovvero la dispersione del seme, in modo da mantenere il rapporto nei suoi canali naturali e far sì che il metodo scelto sia il più possibile simile al mokh. Sicché l’uso del profilattico è proibito, poiché esso è una barriera fisica usata dall’uomo che chiaramente porta alla hashchatat zèra.
Diversamente, un diaframma può essere considerato come un valido sostituto della mokh ed è addirittura preferibile per la sua maggiore affidabilità; infine la pillola ormonale è considerata dalle autorità rabbiniche come la migliore soluzione poiché, essendo una barriera chimica, riduce considerevolmente il rischio di hashchatat zèra’. Ovviamente rimane aperto il dibattito sui rischi connessi all’uso della pillola, soprattutto per donne che devono allattare o per le giovani.
Per quanto riguarda invece l’’interruzione di gravidanza, questa compare nella Torah solamente nel caso di aborto colposo: “Se due uomini litigano e urtano una donna incinta così da farla abortire, ma non ci sia danno (dolo), ci sarà un risarcimento così come lo imporrà il marito della donna e si darà attraverso i giudici.”
L’aborto colposo viene trattato come una comune causa civile per danneggiamento ed è il marito a venir compensato per la perdita; in caso di dolo, invece, la pena prevista sarebbe vita per vita, cosi come previsto dalla legge del taglione.
La distruzione del feto non è considerato un omicidio, poiché il medesimo non ha dignità di persona, ma è considerato comunque una parte della madre. Il feto non gode di propri diritti, ma può essere sacrificato per salvare la vita della madre: “Se una donna ha delle difficoltà di parto, una taglierà via il feto da lei e lo asporterà, poiché la vita della madre è più importante della sua vita”.
L’embrione diviene una persona a tutti gli effetti alla fine del processo di travaglio, con la venuta alla luce della sua testa o della maggior parte del suo corpo. Nonostante l’esistenza del feto sia inferiore a quella della madre fino alla sua nascita, è tuttavia considerato come un potenziale essere vivente: ecco perché è possibile violare una mitzvah per salvare la sua vita (per esempio portare un coltello di shabbat per operare ed assistere al parto).
La maggior parte delle autorità, quindi, concede la possibilità di abortire unicamente per salvare la vita della madre. Essi seguono per una via o per un’altra le considerazioni di Maimonide che, commentando il Talmud arrivava alla conclusione che l’aborto sia da concedere solo nel caso in cui il feto rappresenti un pericolo per la salute della madre.
Oltre al caso esaminato, il Talmud cita un’altra situazione in cui può praticarsi l’aborto; disse Rav Jehudà a nome di Shemuel: “Se una donna sta per essere giustiziata, non si ha da aspettare sino a che ella partorisca, ma le sia percosso l’utero cosicché il feto possa morire prima ed essa non venga disonorata”.
Considerazioni a sé merita il problema su come considerare l’aborto dal punto di vista della halakhà, considerato il su citato principio che un feto non è ancora un individuo vitale completo, e che quindi chi lo sopprime non è considerato un omicida, un individuo cioè che, secondo la Torà, dovrebbe essere condannato a morte.
Prima considerazione: tutto ciò non significa naturalmente che la soppressione di un feto sia un atto commendevole, e neppure lecito, ma solo che è una colpa meno grave dell’omicidio.
Poi, in determinate situazioni questa considerazione ha, come vedremo subito, un’importanza pratica. Non vi è dubbio che, in via generica, l’ebraismo consideri colpevole l’aborto procurato e questo per due motivi: in primo luogo perchè la soppressione di un essere umano vivente, anche se non ancora completo né sicuramente vitale, è vietata; e poi perchè qualunque pratica sul nostro corpo, che vi causi una ferita o che comunque porti ad un qualsiasi pericolo, è proibita. È quindi proibito alla donna procurarsi l’aborto e ad altri di procurarglielo.
Lo slogan oggi tanto comune “io sono mia” sta esattamente agli antipodi della concezione ebraica, in base alla quale nessuno di noi è padrone del proprio corpo: ognuno ha il dovere di conservarlo come è, nelle condizioni migliori, e di usarlo in base alle Mitzvot della Torah. Se esso è stato usato per la procreazione, e non importa se l’atto della procreazione è avvenuto o meno nelle circostanze ammesse dalla halakhà, nessuno ha il diritto di interrompere il processo di procreazione.
Però, non essendo l’aborto un omicidio, sussiste di fronte ad esso il grande principio ebraico secondo il quale per garantire la salvezza di una vita umana (cioè di un essere vitale), è lecito e doveroso infrangere ogni altro divieto. È perciò opinione generalmente diffusa tra i Maestri di oggi che, qualora un medico onesto e coscienzioso affermi che la continuazione di una gravidanza mette in pericolo la vita della madre, è lecito e probabilmente doveroso interromperla, sempre che i rischi dell’aborto siano minori per la madre che non quelli della continuazione della gravidanza. E qualora la donna si opponga alla disposizione medica di interrompere la gravidanza, sarebbe doveroso dei Maestri della Torah spiegarle che il suo atteggiamento, senza dubbio frutto di grande spirito di abnegazione, è in realtà contrario alla normativa, alla morale ed allo spirito dell’ebraismo.
La situazione si fa più problematica nei casi in cui i medici ritengano che, se non si interrompe la gravidanza, il nascituro avrà vita brevissima e travagliata o malformazioni tali da condannarlo alla sola esistenza vegetativa o poco più, comunque ad una vita di terribili e continue sofferenze per se stesso e per i suoi familiari. In questi casi la grande maggioranza delle autorità rabbiniche ritiene l’interruzione della gravidanza lecita, e forse anche doverosa, ma non manca anche chi la ritiene proibita.
Alcuni Maestri ritengono poi che si può procurare l’aborto anche quando la gravidanza è la conseguenza di una violenza o di un incesto, è però indiscutibile che in nessun caso l’aborto può esser procurato perché i genitori non vogliono addossarsi l’onere economico di una bocca di più da sfamare o, tanto meno, se pensano di disfarsi del frutto della loro unione per potersi permettere maggiori lussi o maggiori agi. Cosi pure non può essere ammesso l’aborto per favorire una ragazza in procinto di divenire madre, solo perché “si vergogna” di affrontare la sua condizione di “ragazza-madre”. In tutti questi casi si sarebbe dovuto pensare alle conseguenze prima di compiere atti che potevano portare alla procreazione, e il fatto che non ci si sia pensato non può costituire un motivo valido per defraudare della vita un innocente.
L’incertezza che perdura su alcuni dei problemi inerenti all’aborto è dovuta al fatto che molto spesso si tratta di una casistica nuova e probabilmente sconosciuta nel periodo classico della Halakhà. Questa nuova casistica si affaccia con tutta la sua intensità al seguito del processo assimilatorio sempre più grave.
La permissività e la licenziosità in campo sessuale sono purtroppo penetrati anche tra gli ebrei, per i quali la santità della famiglia era forse rimasta l’ultimo baluardo valido. Trattare perciò dell’aborto senza cercare di porre un freno alla situazione di licenziosità che si è venuta creando, non ha senso. Il fatto è che, anche in campo sessuale, bisogna rieducare gli ebrei alla disciplina della Halakhà, che proibisce ogni rapporto extraconiugale sia all’uomo che alla donna, e regola anche i rapporti tra i coniugi. Se gli ebrei si uniformassero alla Halakhà su questa base e non si limitassero solo a chiedersi se l’ebraismo è o meno abortista, i casi in cui si porrebbe il problema se un certo aborto è lecito, sarebbero infinitamente meno numerosi e probabilmente di più facile soluzione.
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