25 aprile: il contributo degli ebrei italiani nella Resistenza
di Gabriel Venezia
Quando si pensa alla Resistenza ebraica contro il nazifascismo, vengono in mente due figure in particolare: quella del partigiano polacco nella rivolta del Ghetto di Varsavia e quella del soldato della Palestina mandataria inquadrato nella Brigata Ebraica dell’esercito britannico. Sarebbe ingiusto, se non antistorico, non pensare ai numerosi correligionari che dalla Francia alla Lituania, passando per Bielorussia fino alla Jugoslavia hanno dato la vita per rendere l’Europa un luogo migliore, senza odio e senza fascismo. Furono numerosi i casi di forte resistenza ebraica in tutto il continente, anche in Italia possiamo vantare molti esempi. In particolare, due figure eccellenti: Elio Toaff e Primo Levi. Personaggi straordinari, vissuti in contesti diversi, accomunati dal loro essere italiani, antifascisti ed ebrei. Subirono il contraccolpo delle infami leggi razziali del 1938. Levi si era “immatricolato” come studente di Chimica, mentre Toaff aveva da poco completato il percorso universitario, iniziando lo studio rabbinico. Livornese di nascita e rabbino di Ancona dal 1941 al 1943, Toaff scelse di unire kippah e talled al fazzoletto rosso, riuscendo a scappare assieme alla famiglia poco prima della deportazione. Scelsero di nascondersi in Toscana, più la parte nord, la Versilia, ricca di montagne che fungevano come rifugio dalle barbarie nazifasciste. Fu così che, nel 1944, Toaff entrò in contatto con la resistenza, aggregandosi alla leggendaria Brigata Garibaldi, nella “sezione Gino Lombardi”. La zona dell’alta Toscana, a causa delle numerose azioni partigiane, fu oggetto di sanguinose ripercussioni dovute alle vendette indiscriminate delle SS e dei traditori fascisti. L’azione nazifascista più tristemente famosa si è verificata a Sant’Anna di Stazzema, dove il 12 agosto, in poco più di tre ore, reparti di SS e di fascisti italiani uccisero circa 560 civili, tra cui molti bambini. Lo stesso Toaff fu testimone oculare della violenza sui civili del piccolo paese nella provincia di Lucca, che lo segnò a vita. In merito all’accaduto scrisse: “Per tanti anni mi sono chiesto perché. Ho cercato di dare un senso a tutta quella ferocia che mi venne incontro in quel caldo mattino d’estate, […] le SS avevano reso le persone un ammasso irriconoscibile”. Si ricordò di quando, trovato il corpo di una donna, si accorse che aveva il ventre squarciato da un colpo di baionetta: era incinta e sul tavolo giaceva il bambino non ancora nato. Avevano tirato un colpo d’arma da fuoco anche alla sua piccola testa.
Scampato il periodo della guerra e il pericolo della deportazione, nel 1946 si trasferì a Venezia, dove fu nominato rabbino, senza mai dimenticare il periodo da partigiano. Negli anni fu un vero costruttore di pace per evitare il ripetersi della storia, e favorì il dialogo interreligioso, la fratellanza e la pace. Parallelamente alla sua storia, scorre quella di Primo Levi, tra il Piemonte e la Valle d’Aosta. Chimico torinese sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, con l’armistizio del 1943 e l’arrivo dei tedeschi, a cui era seguito l’inasprirsi della persecuzione antiebraica, decise di agire e partecipare alla lotta contro gli aguzzini nazifascisti. Entrato già nel 1942 nel Partito d’Azione, ovviamente clandestino, iniziò a muovere i suoi primi passi nella resistenza. A seguito della capitolazione del fascismo l’8 settembre 1943, Levi decise di abbandonare la sua Torino per nascondersi assieme ad alcuni coetanei antifascisti e creare un gruppo di resistenza. Male armato e mal addestrato, il gruppo partigiano si rese comunque protagonista di processi e azioni contro delatori e infiltrati di ogni genere. I partigiani dovevano necessariamente mantenere l’ordine e soprattutto salvaguardare la fiducia della popolazione locale. Guido Bonfigli, partigiano e amico di Primo Levi, raccontò in un’intervista quella fase di guerra come un momento dove avvennero condanne, frutto però di regolari processi che impegnarono magistrati italiani. Il professore ex partigiano ricorda anche la figura di Levi, descrivendo un ragazzo pacifico, sensibile e delicato. Non era certamente un ideologo, ma un ragazzo trascinato dagli eventi che lo avevano colpito in quanto ebreo e antifascista. Fu proprio il suo essere ebreo a salvarlo momentaneamente al momento della cattura. Preso dai fascisti italiani nel dicembre del 1943, decise di dichiararsi ebreo anziché partigiano, venendo risparmiato da una morte immediata per esser destinato, però, a un cammino impregnato di morte. Dalla Valle d’Aosta, Levi venne deportato al campo di Fossoli, campo di transito vicino a Carpi, per poi venire trasferito nel 1944 ad Auschwitz, le cui vicende sono poi state raccontate nel libro “Se questo è un uomo”. In concomitanza del 25 aprile, è fondamentale scendere in piazza, non solo perché in quanto ebrei siamo antifascisti, ma anche per onorare la memoria dei numerosi eroi morti nel tentativo di sradicare l’odio. In quanto italiani abbiamo il diritto e il dovere di esserci. Nonostante le minacce e gli sputi di chi da anni ha preso le piazze in nome di una lettura antistorica che vuole far passare quelli che stavano con i nazisti come partigiani, è fondamentale riprenderci gli spazi e ricordare che cos’è il vero antifascismo.
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