La Parashà della settimana: Pekudè
di Ruben Caivano
Questo Shabbat, con la Parashà di Pekudè, si chiude il libro di Shemòt. Moshè incarica il popolo ebraico di censirsi, di conteggiare le donazioni fatte per il Santuario e di annotare come i contributi venissero utilizzati. Inoltre nella Parashà viene ripreso il tema della costruzione del Mishkan. Il tema del santuario, che inizia con le Parashòt di Terumah e Tetzaveh, viene ripreso e concluso in questa Parashà, ed è un modo straordinario per concludere il libro di Shemot. Il resto del racconto è una storia schiavitù di am Israel in Egitto e del confronto tra il faraone e l’uomo che è cresciuto cresciuto ne palazzo reale, Moshe, ora capo degli schiavi ebrei. Secondo i maestri in Shemot si tratta dell’intervento divino più drammatico della storia, una storia di segni e prodigi, miracoli e liberazioni. La natura stessa viene sconvolta quando un popolo in fuga dalle persecuzioni attraversa il mar Rosso sulla terraferma mentre le carrozze dell’esercito del Faraone vengono annegato dallo stesso mare . È la storia di libertà più famosa al mondo. Ne sono stati fatti dei film e molte persone oppresse hanno fondato su di esso le loro speranze.
La fine naturale di Shemot dovrebbe essere nei capitoli 19–24: la rivelazione di Dio ad Har Sinai, l’alleanza tra Dio e il popolo, i Dieci Comandamenti e le leggi civili che seguirono.
Dunque come può essere così rilevante questa lunga storia della costruzione del Mishkan, raccontata prima in Terumah e Tetzaveh come comando di Dio a Moshe, e in Vayak’hel e Pekudei come comando di Moshe al popolo e una descrizione di come realizzarlo? Non ha nulla a che fare con i miracoli. Sembra non avere nulla a che fare con la libertà. L’attore principale in questi capitoli non è Dio ma le persone che portano i contributi e Betzalel, il maestro artigiano, e coloro che lavorano con lui, comprese le donne che filavano i tessuti. La maggior parte della narrazione si legge come se appartenesse al Sefer Vayikra, il libro della santità, piuttosto che al Sefer Shemot, il libro della libertà.
La risposta si trova nella parasha di Bereshit (cap2: verso 3) e nella parashat hashavua (39:43) dove ci sono delle somiglianze.
In entrambi i passaggi infatti compaiono tre parole chiave: “lavoro”, “completato” e “benedire”. Questi verbi non sono casuali. Sono il modo in cui la Torah ci suggerisce che una legge o una storia devono essere lette nel contesto di un’altra. In questo caso la Torah sottolinea che il Sefer Shemot termina come iniziò il Sefer Bereshit, con un’opera di creazione. Il Sefer di Bereshit iniziò con un atto di creazione divina. Il Sefer Shemot termina con un atto della creazione umana. Il racconto della creazione nel Sefer Bereshit è strettamente organizzato attorno a una serie di numeri sette. Ci sono sette giorni della creazione. La parola “buono” appare sette volte, la parola “Dio” trentacinque volte e la parola “terra” ventuno volte. Il verso di apertura del Sefer Bereshit contiene sette parole, il secondo quattordici e i tre versi conclusivi trentacinque parole. Il testo completo è di 469 (7×67) parole. Tutto rimanda allo shabbat, il settimo giorno, il giorno del riposo. Dunque la connessione di Pekudè con lo shabbat è che il Mishkan, il Tempio e la sinagoga, per quanto diversi, erano sul posto ciò che è lo Shabbat è nel tempo. Infatti rappresentano tutti un immagine ideale di ordine, come D-o voleva che fosse il nostro mondo. Entrando in questi luoghi si esce dal mondo sociale luogo di conflitti, lotte, ostilità e ingiustizie, e ci si trova sotto la presenza di H., percependo l’armonia dei cieli e la purificazione dello spirito quando arriviamo a espiare i nostri peccati. È qui che possiamo sempre trovare lo spirito interiore di D-o.
Il tempo sacro, lo Shabbat, e lo spazio sacro, il Mishkan/Tempio/sinagoga, sono il luogo in cui l’anima inquieta trova riposo e dove i cuori si aprono; dove sappiamo di essere parte di qualcosa di più grande di questo tempo, di questo luogo; dove se si ascolta è possibile sentire il canto che la creazione canta al suo Creatore; dove portiamo i nostri peccati e le nostre mancanze a Dio e siamo purificati; dove intuiamo che la vita ha un ordine che dobbiamo imparare a onorare; e dove Dio è vicino, non sulla cima di una montagna ma qui in mezzo a noi. Ci deve essere un tempo e un luogo in cui riconosciamo che non tutto è caos. Ecco perché Shemot termina con il Mishkan. La libertà esiste dove regna l’ordine.
Shabbat Shalom!
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